I dipinti di Armando Dozza si collocano esplicitamente in quell’area attualissima di ricerca che va sotto il nome di “paesaggio urbano” o meglio, di “pittura di città”.
Non si tratta di un movimento organizzato (i tempi dei manifesti programmatici sono finiti da un pezzo…), quanto di un interesse dilatato che accomuna artisti di tutti i paesi ed anche molto diversi l’uno dall’altro nell’osservazione impregiudicata del nuovo habitat in cui l’uomo sempre più si trova a vivere ed a convivere: la città, anzi, meglio, la metropoli. È sufficiente fare qualche nome, di valenza sovranazionale, per comprendere la vastità e la portata del fenomeno, da quelli degli statunitensi Richard Estes – notissimo per i suoi Photorealistic landscapes – e Jane Dickson – più giovane, ora attenta in particolare al Night Driving – a quelli del tedesco Stefan Hoenerloh, stupefacente per la pienezza incombente dei suoi Seltene Welten, mondi rari, o dello spagnolo Alejandro Quincoces, con le sue periferie perse nella nebbia, i suoi panorami di città vuote di uomini. Anche in Italia, in tutta Italia, operano in questa direzione artisti di grande intensità come Alessandro Papetti, Giovanni La Cognata, Bernardo Siciliano, Botto e Bruno, Andrea Chiesi…, solo per proporre alcuni nomi già affermati, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri di pari interesse.
Armando Dozza è tra questi e come loro, insieme a loro, esplora un mondo solo in apparenza ‘normale’, in cui l’uomo è assente mentre restano le sue costruzioni, i suoi giocattoli di pietra e metallo, i suoi scarti. La personalità pittorica di Dozza è però ben distinta e delineabile e basta osservare con qualche attenzione le sue opere per rendersene conto. Ciò che salta subito agli occhi è il gioco degli effetti di luce che stempera l’altrui a volte troppo insistito ‘fotorealismo’ in immagini sciolte, fluide, atmosferiche. È la luce a conferire ai suoi dipinti un alone quasi medianico, in difficile equilibrio tra levigato iperrealismo ed evocazione onirica, quasi che i suoi tagli d’immagine affollati dalle cose degli uomini, i suoi lampi a sciabolata luminosa, i suoi scoppiettii di oscurità sappiano far affiorare il volto segreto, decisamente inquietante, della città.
La sua pennellata rapida – tutta basata sul colore che in sé riassume materia, luce, segno – accetta e sottolinea la provocazione non solo visiva del tema, senza perdere in energia e guadagnando piuttosto in ‘distanza’, quasi che, pur nella totale immersione nel quotidiano (queste sono cose viste dal di dentro), l’artista sappia guardare la teatralità affollata della città con quel pizzico di distacco, quel filtro del dubbio, quel margine di sogno che soli possono trasformare una presa di coscienza culturale in immagine d’arte, in opera. Tale allontanamento in atmosfere quasi cinematografiche (siamo tutti figli di Blade Runner…) si crea grazie al dinamismo del colore, che non ignora comunque una possibilità di luce al confine dell’orizzonte ma è dovuto anche a qualche cosa di più, di diverso: un costante, irrinunciabile senso dello spazio, un bisogno d’aria che Armando Dozza trae anche dalla sua esperienza di architetto.
In tal modo il suo quotidiano metropolitano sfugge al rischio dell’oppressione, della claustrofobia, ed anche se le sue immagini paiono rigate di lacrime nella pioggia o squarciate da lampi metallici nella notte, non ci si sente gravati da sensazioni di soffocamento perchè l’aria continua, nonostante tutto, a circolare, alleggerendo anche gli scorci, i particolari più affollati.
Vi si avverte un che di epifanico, quasi la possibilità di un’apparizione che sta per crearsi in mezzo e sopra tanto metallo, tanti fumi, tanto asfalto. Apparizione non si sa di che (come nelle cataste di automobili o nelle strade di notte in cui ogni cosa pare sul punto di trasformarsi, di divenire altro, così negli ‘interni di frigorifero’ anche il barattolo più comune, il vasetto di yogurt o la bottiglia d’acqua minerale prendono l’aspetto di oggetti fatati, tutti ricoperti di polvere magica), perché Armando Dozza è troppo laico, troppo presente a se stesso per cadere nelle trappole di un malinteso e generico fideismo, qualunque esso sia. Qui il miracolo, pur generato per reazione, per antitesi dall’angoscia di un troppo pieno che rischia di travolgerci, è tutto umano, tutto presente e si annida nella speranza che tra lamiere, clacson, pioggia grigia e asfalto rovente sia ancora possibile vedersi esplodere addosso la luce.
Marilena Pasquali
OPERE
GLASS
TOWN
SUPERHEROES
FRIDGE VIEWS
BIOGRAFIA
Armando Dozza è nato a Bologna nel 1956.
Dopo essersi diplomato al Liceo Artistico di Bologna si iscrive alla facoltà di architettura di Firenze presso la quale si laurea nel 1982.
Da allora ha sempre svolto la professione di architetto senza mai rinunciare alla passione per il disegno e la pittura, spesso applicata al lavoro progettuale nel campo della decorazione di interni e dell’immagine di ambienti ed edifici.
Dall’anno 2000 inizia a dipingere in modo assiduo seguendo una figurazione metropolitana quotidiana, segnata da naturali ed innaturali effetti di luce.
I suoi lavori appaiono dapprima in una galleria bolognese e nell’anno 2007 è stato invitato a due importanti mostre nazionali , una “ Oltre l’oggetto. Morandi e la natura morta in Italia” al Museo Michetti di Francavilla (Pe) e l’altra “ L’alibi dell’oggetto: Morandi e lo sviluppo della natura morta in Italia” alla Fodazione Ragghianti di Lucca. In queste rassegne presenta per la prima volta il suo tema degli interni di frigorifero.
Nel 2009 la Fondazione Tonino CGottarelli ed il Comune di Imola gli organizzano una personale nella ex chiesa seicentesca della SS. Annunziata ad Imola.
Espone in seguito in diversi luoghi di Bologna, in particolare, in occasione di Artefiera, presso la sede Kartell cittadina con una serie di lavori dal titolo “Città e Supereroi”.
Vive a Bologna e lavora fra questa città ed il mare di Romagna.
Foto copertina: Francesca Cottignoli
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